“Ako ay Pilipino” – Io sono Filippino. Che significa essere filippino? Ovviamente non posso saperlo, io sono solo un osservatore esterno, ho scelto di guardare il mondo e provare a raccontarlo.
Però è una domanda interessante, che vale per ognuno di noi, per ogni essere umano e migrante, anche perché l’essere umano stesso è comunque sempre un migrante, anche qualora rimanesse nella sua stanza tutta la vita.
Ho trovato stimolante un articolo scritto dalla moglie dell’Ambasciatore delle Filippine a Roma, a cui era stato chiesto di interrogarsi sul senso di “Essere filippino”. Perché ovviamente, c’è il guardarsi e l’essere visto; e nel caso della comunità migranti, c’è l’essere visti dai proprio connazionali e dagli altri stranieri, in questo caso noi: come i filippini sono visti da noi.
Julie Otsuka, nel suo libro “Venivamo tutte per mare”, racconta – attraverso un io corale – l’arrivo delle giovani spose giapponesi in America nei primi del Novecento. Il loro impatto con una realtà diversa, i mariti differenti dalle foto, come loro vedevano gli americani e come erano loro viste dagli stranieri. Ma sopratutto il rapporto che si instaura con i datori di lavoro, l’essere – nella loro forza – comunque dipendenti da queste giovani giapponesi di villaggio; e il dolore di vedere i figli crescere in suolo straniero, dimenticando le parole e la cultura della terra d’origine, fino a provare vergogna delle proprie madri contadine. E’ interessante leggere come i punti di vista degli osservatori cambino, come si descrivano a vicenda, e questo accade ogni giorno anche nelle nostre vite.
Perché alla fine noi tutti abitiamo lo spazio ristretto dei nostri corpi, con i due occhi che ci osservano allo specchio, parte fondamentale dello sviluppo cognitivo di ogni bambino. Ma questo corpo diventa poi il nostro nucleo famigliare, la nostra casa, la via, la nostra città, la nostra nazione, il nostro continente fino ad arrivare al mondo intero, con tutti gli occhi che esso comporta su di noi.
Io ho scelto la fotografia come mezzo per direzionare questi occhi su di noi, per dare una direzione di visione e lettura delle comunità, e quindi la domanda che si pone all’inizio diventa imprescindibile: “Che significa essere filippino?” – Io me lo chiedo continuamente, da quando ho iniziato a vivere con loro e seguire i loro eventi.
Questo vale anche per l’Indonesia: “Io sono indonesiano” – Posso dirlo, lo sento.
La moglie dell’Ambasciatore scrive, appunto, che i non-filippini li definiscono per le loro innate caratteristiche di popolo sorridente e di grandi lavoratori. Ma questo diventa anche un limite, perché ci si accontenta di questa visione, poiché garantisce uno stipendio ed un tetto sulla testa, impedendo qualsiasi spinta propulsiva verso nuove vie di crescita.
Inoltre Mrs. Reyes sottolinea un altro aspetto importante, quello di non limitare una cultura migrante all’aspetto esteriore, il cibo, le danze, i costumi. Quelle che io chiamo le fotografie della domenica, perché sono attimi carpiti troppo facilmente, senza un reale spessore di approfondimento, perché tutto è già dato in superficie.
Ma si può raccontare qualcosa che non si è? Posso io dirmi filippino o indonesiano senza esserlo?
E’ veramente un errore epistemologico?
Quello che io chiedo, da tempo agli aspiranti fotografi è di iniziare a provare, a raccontarsi da soli, a mostrare con le immagini quello che loro sono, a direzionare gli occhi del mondo secondo la loro volontà, perché la loro risposta all’essere filippino è ovviamente diversa dalla mia. Io posso solo provare con tutte le forze a calarmi nelle loro esistenze, come se una corda mi portasse nelle profondità del pozzo di una comunità migrante, e il mio compito fosse di illuminare con la fotografia ogni momento della buia discesa.
So già che raggiungere il fondo è impossibile, ma questo vale anche per noi stessi, chi può mai dire di aver raggiunto il fondo del proprio pozzo esistenziale, chi può dire che cosa significhi essere Stefano, o italiano, o europeo? E sinceramente la domanda sul senso della mia nazionalità non mi interessa, mentre mi stimola molto di più sapere cosa significhi essere altro da me, e come le altre comunità rispondano a questo interrogativo, perché poi in questa domanda c’è la sfida contemporanea della contaminazione: l’incastro tra le risposte multiple della comunità stessa e di quella ospitante, per non dimenticare tutte le altre comunità migranti che vivono al nostro fianco e sono altri occhi puntati su di noi.
Io credo che sia giunto il momento di ascoltare queste risposte, e spero che la fotografia migrante inizi a raccontarsi sempre di più. Nell’attesa, io continuo a calarmi nel pozzo, piano piano, e a mandarvi fotografie in superficie dal fondo del ventre umano, che un filosofo chiamava la carne del mondo. (Stefano Romano)
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