Iniziamo questo nostro viaggio tra le comunità migranti parlando delle Filippine e del suo popolo.
Anche perché la comunità delle Filippine è una delle prime arrivate in Italia, tra le più integrate ed organizzate; e anche perché non c’è oramai italiano che non conosca qualche filippino o non abbia personalmente, o per conoscenza, una filippina che lavora nella propria casa.
Per esempio i filippini a Roma, fino al 2011, erano 29 mila, il secondo gruppo più numeroso, pari al 7% dei residenti stranieri. Ora sono stati superati dai cinesi e dai marocchini, ma rimangono il migliore esempio di perfetta integrazione nel suolo nazionale; vuoi anche per la forte fede cattolica che li caratterizza e li apparenta al comune sentire italiano.
Proviamo a raccontare la loro cultura.
La repubblica delle Filippine è conosciuta come la terra delle molte isole (ne conta 7 mila), la cui superficie raggiunge quella dell’Italia. È divisa in tre parti: Luzon, Visayas e Mindanao. Non a caso, uno dei nomi femminili più comuni è Luzviminda, che è l’unione delle iniziali di queste regioni.
Fino al 2009 i filippini erano 93 milioni, 11 milioni dei quali vivono all’estero per lavoro (Overseas Filipino Workers – OFW).
I primi abitanti delle Filippine risalgono a 25 mila anni fa, si chiamavano negritos. Nel 1380 arrivarono a Sulu i Makdum, popolazione di cultura araba da cui derivano le varie etnie musulmane dei giorni nostri. È tuttora in atto una rivendicazione separatista nel sud dell’Isola da parte di questa minoranza religiosa (riunita nel MNLF, il Moro National Liberation Front) che non si riconosce nel governo filippino e vuole l’indipendenza di quello che loro chiamano Bangsanmoro (il paese dei mori), purtroppo a volte anche con atti terroristici che rendono quelle zone pericolose dal punto di vista turistico.
Le Filippine furono colonizzate dagli spagnoli nel 1500, il nome stesso fu dato da Ruy Lopez de Villalobos in onore di Filippo II di Spagna. L’influenza spagnola è ancora molto presente, molti dei termini del tagalog – la lingua nazionale – sono spagnoli. La lotta d’indipendenza durò oltre 300 anni, finché nel 1898 fu proclamata l’indipendenza, solo apparente, perché dalla Spagna passò agli americani; fino alla definitiva indipendenza nel 1946.
In Filippine si parlano molti dialetti, circa 138, e se un ilocano – filippino del nord – parla con uno di Davao – del sud – non capiscono una parola l’uno dell’altro.
Ci sono soltanto tre stagioni: la stagione calda, da marzo a maggio, quella delle piogge, da giugno a novembre, e quella fredda, da dicembre a febbraio.
La bandiera filippina ha un sole con otto raggi e tre stelle in oro, su un triangolo bianco, il resto è diviso in due bande orizzontali, blu la superiore e rossa quella inferiore. Risale al 1897 e le tre stelle rappresentano le tre regioni delle Filippine, mentre gli otto raggi del sole sono le otto principali provincie. L’idea è quella di simboleggiare l’unione dei popoli e culture separate in un’unica nazione.
L’inno nazionale si intitola “Lupang hinirang” (1898) e i primi versi recitano: “Bambino del sole che ritorna \ con fervore ardente \ ti adoro mentre plasmi la nostra anima.”
Questo è quanto di ufficiale si può trovare sulle Filippine. Ora proviamo a raccontare qualcosa del popolo filippino.
Come tutti i paesi asiatici e tropicali il rapporto con il sole è molto viscerale, è un legame inscindibile e atavicamente legato alla libertà. Il più grande poeta ed eroe nazionale, rivoluzionario, morto nel 1896 per difendere la causa dell’indipendenza delle Filippine (tanto che a Roma gli è stata dedicata una statua in Piazza Manila), Jose Rizal, scriveva nella sua poesia “Kundiman”: “O il sole tornerà a splendere \ da sé la terra si libererà dalle catene \ ed ancora una volta per il mondo con lode crescente \ risuonerà il nome della razza tagalog.” È però vero che, nonostante siano bagnati da acque tra le più belle al mondo, i filippini non amano molto abbronzarsi al sole come gli occidentali. Segno di bellezza è avere un colore della pelle chiara, e non olivastra come di norma: kayumanggi è come si definisce il tono della pelle filippina, ma che può diventare anche rivendicazione della propria specificità culturale – a Roma, per esempio, c’è un gruppo di danza folkloristica che si chiama Kayumanggi. Molte donne si rovinano la pelle del viso con una crema scolorante chimica (RDL) che le sbianca in un primo momento, poi le corrode la melanina e arrossa in malo modo.
Anche il naso schiacciato è un problema, tanto che una delle più famose canzoni filippine invita a “non provare vergogna se il naso è schiacciato (pango)”. Quasi tutte le dive moderne nazionali della musica e del cinema hanno un naso occidentale, purtroppo uno degli effetti della globalizzazione e della influenza americana sulla cultura filippina.
Ma se si vuole conoscere la vera musica tagalog si ascoltino i classici, cercate le canzoni di Pilita Corrales (“Rosas Pandan”, “Carinosa”), Imelda Papin, Sharon Cuneta, Rico Puno, Florante, Heber Bartolome, Haji Alejandro; tra i moderni la più famosa è Regine Velasquez, conosciuta come l’usignolo dell’Asia, e Charice Pempengco che ha debuttato nel 2008 ancora minorenne ed è stata portata al successo da duetti con Celine Dion e Andrea Bocelli. Comunque la canzone più famosa e tradotta in tutto il mondo è sicuramente “Anak” (figlio) di Freddie Aguilar, sul difficile rapporto tra i genitori e i propri figli quando crescono e danno preoccupazioni (cercate la versione in inglese intitolata “Child”).
Nel cinema sicuramente Nora Aunor è una delle attrici (e cantanti) più famose e il suo film “Himala” (Miracolo) ha avuto riconoscimenti anche oltre confine. Non c’è filippino che non sappia il famoso discorso sulla collina della protagonista del film sulla natura dei miracoli: “Walang himala! Ang himala ay nasa puso ng tao, nasa puso nating lahat! Tayo ang gumagawa ng mga himala! Tayo ang gumagawa ng mga sumpa at ng mga diyos…” (Non c’è miracolo! I miracoli sono nei cuori delle persone, in tutti i nostri cuori! Noi facciamo i miracoli! Noi facciamo le maledizioni e le divinità!).
Nelle città delle Filippine ci si muove su autobus che sono vere e proprie opere d’arte mobili, personalizzate con dipinti che li rendono unici (jepneey), e per aggirare il traffico caotico si usano delle specie di sidecar (tricycle); mentre in provincia ci sono ancora i più romantici carretti tirati dai cavalli (calesa).
Si mangia tanto riso, con carne (adobo), dolci (halo-halo e puto), ma se vi offrono i balot state attenti, sono uova con dentro un pulcino bollito, veramente disgustoso alla vista, che pare sia ad altissimo contenuto vitaminico, e sono usate per aumentare le prestazioni sessuali. Tutte cose che ogni filippino trova anche in Italia.
Quando si sposano è tradizione che gli invitati, parenti ed amici, attacchino con spilli le banconote ai novelli sposi mentre danzano, durante il pranzo nuziale. Più la persona è ricca, più la collana di banconote sarà lunga: segno di prestigio davanti a tutti gli invitati.
Quando un filippino abbandona il paese per lavoro, la sera prima gli viene offerto un maiale intero cotto allo spiedo (despedida). Mentre, quando ritorna viene chiamato balikbayan, ovvero il compaesano che ha fatto fortuna all’estero – è di difficile reperibilità, ma se potete cercate la raccolta “Balikbayan”, curata da Ubaldo Stecconi per Ossigeno, la prima antologia di narrativa filippina mai pubblicata in Italia.
La danza più famosa si chiama tinikling, ed è un incrocio tra il gioco della campana e il salto della corda, dove l’abilità del danzatore sta nel balzare a tempo tra lunghe canne di bambù fatte suonare colpendole tra loro da altri danzatori.
I filippini hanno una parola specifica che indica la nostalgia della patria lontana: sabik.
Sono grandi giocatori d’azzardo (se andate nelle sale bingo il giovedì e la domenica troverete sempre decine e decine di filippini). Il loro poker si chiama posoi e nessuno potrebbe mai capire cosa stanno facendo, perché possono arrivare a giocarci contemporaneamente una trentina di persone che si muovono in piccoli gruppi. Regole complicate ma bellissima coreografia.
Hanno una forte fede religiosa e spirito patriottico, che si traduce nel piacere dell’appartenenza: se due filippine che non si conoscono si incontrano su un mezzo di trasporto, quasi sicuramente dopo pochi secondi si sorridono e iniziano a chiacchierare come fossero vecchie amiche.
I ragazzi impazziscono per il basket e la break-dance.
Le donne si dedicano alla cura continua delle unghie, sono maestre nella manicure e pedicure. Le più anziane invece difendono quanto più possibile il nero profondissimo dei loro capelli, pinzando quelli bianchi (uban).
La parola amore è la stessa per indicare che una cosa ha un prezzo alto (mahal), e si divertono a giocare con l’anagramma tra matrimonio (kasal) e l’essere incatenato (sakal).
Le donne filippine hanno un intenso rispetto per il datore di lavoro, difendendo con dedizione il predominio sull’attività di domestica che le rende famose in tutto il mondo, proprio grazie alla loro correttezza e infaticabilità.
Ma c’è una nuova generazione di filippine che sta prendendo piede nel sociale. Aumentano ogni anno le operatrici sociali, le mediatrici culturali che lavorano nelle scuole, e ci sono donne che da sole dirigono un’intera testata giornalistica in lingua a carattere nazionale (Ako ay Pilipino)
È difficile, avendo poco spazio, raccontare una cultura; si è per forza riduttivi, e non ce ne vogliano i filippini. È solo un modo per provare a dare spessore a chi magari lavora con o per noi, o è semplicemente nostro amico.
La conoscenza ci rende più vicini.
Per i dati statistici è stata consultata la guida “Filippini in Italia – Roma” dell’ASLI.
(di: Stefano Romano)